Proseguiamo il percorso che nel tempo ha delineato il quadro della responsabilità professionale così come è stato descritto dal Presidente Travaglino nel corso del suo intervento al 46° Congresso Simla di Catania.
Rimaniamo sempre alla fine degli anni settanta, più precisamente quando i Bee Gees scalano le classifiche con l’album “Saturday Night Fever”, ossia nel 1978.
Più precisamente è il 21 dicembre e la III Sezione Civile della Corte di Cassazione con la sentenza n. 6141 (pubblicata su Foro Italiano 1979, I, 4) affronta il caso riguardante una operazione chirurgica mettendo al centro dell’esegesi l’onere della prova.
Riassumiamo qui i passaggi principali per giungere a quei principi di diritto di cui ha trattato il Presidente Travaglino.
Il fatto
Un paziente, affetto da plantismo plantare al piede sinistro si sottopone ad un intervento chirurgico di doppia artrodesi per correggere il difetto nel 1962. Dopo l’intervento, il chirurgo applicava un gesso. Un mese dopo il paziente sviluppava una infezione della ferita chirurgica e recatosi nuovamente in ospedale, rimosso l’apparecchio gessato, era medicato e quindi era nuovamente confezionato un nuovo apparecchio. Il mese successivo era rimosso il gesso e la radiografia di controllo mostrava un piede distorto e incurvato verso l’alto, mentre la deambulazione si era notevolmente aggravata.
Il paziente muoveva causa avanti al Tribunale di Napoli nei confronti dell’ospedale per chiedere il risarcimento del danno. Nel primo grado di giudizio, il Tribunale rigettava la domanda in conseguenza di ben due consulenze tecniche.
Il paziente ricorreva in appello avanti alla Corte di Napoli che con la sentenza emessa nel 1974 confermava nuovamente quanto già statuito nel primo grado di giudizio.
La Corte di appello faceva proprie le risultanze delle consulenze tecniche, che escludevano che la stabilizzazione del piede in posizione errata derivasse da fatti infiammatori o necrotici o dal callo osseo, ma negava che, per ciò solo, si potesse pervenire alla conclusione che quella stabilizzazione fosse imputabile ad un errore chirurgico. Il consulente tecnico aveva infatti anche rappresentato che quella viziosa guarigione potesse essere dipesa da eventi imponderabili legati anche all’età del paziente o ad altre cause.
La Corte fece presente che le suddette eventualità erano prospettate solo in via ipotetica, così come la presenza di un errore chirurgico, il quale non era confortato da alcun elemento probatorio, sottolineando come “nella materia di che trattasi” la prova dell’errore deve essere rigorosa, perché deve offrire la dimostrazione della violazione, da parte del medico, dei suoi doveri connessi alle attività prestate.
La Corte riprendeva quanto riportato dai Consulenti del Giudice:
- L’intervento chirurgico era di facile esecuzione, ma non avevano affermato che lo stesso dava garanzia assoluta ad una restitutio in integrum;
- Il grado di ipercorrezione in supinazione era di lieve misura e fu definito necessario per la tecnica chirurgica adottata;
- Il paziente doveva fare maggiormente leva sul piede sinistro operato, con più facile stancabilità sull’arto;
Pertanto, la Corte concludeva affermando che il danno lamentato era determinato da cause inerenti all’operazione ma non ascrivibili alla cura chirurgica ortopedica applicata e seguita dai medici, nei confronti dei quali non vi era la dimostrazione di una negligenza, imprudenza od imperizia anche lieve. Così escludeva che “poteva procedersi per presunzione, deducendo la colpa del prestatore di opera professionale del mancato riscontro di alcune soltanto delle molteplici cause che possono e concorrere a determinare l’esito dell’intervento chirurgo”.
Il paziente ricorreva in Cassazione.
Motivi e principi della sentenza della Cassazione
La Corte di Cassazione accoglieva il ricorso, cassava la sentenza e rinviava per nuovo esame ad altro giudice.
La sentenza è assai articolata, ma è anche un piacere leggerla per la fluidità del linguaggio, il chiaro fraseggio e la semplicità espositiva con cui gli Ermellini hanno espresso i principi di diritto che sono ancora oggi vigenti, al mutare del millennio. Pertanto, riporteremo solo i punti fondamentali, lasciando al lettore il gusto di percorrerla per intero.
La responsabilità contrattuale dell’ente ospedaliero
La Suprema Corte, già allora, affermava che la responsabilità di un ente ospedaliero per i danni cagionati ad un paziente ha natura contrattuale. Tale principio è fissato dal contratto d’opera intellettuale che la casa di cura stipula con il ricoverato, così obbligandosi ad eseguire una prestazione medica per mezzo dei sanitari suoi dipendenti. Ne discende che la responsabilità è da vedersi nell’esatto adempimento e rientra tra quelle tipiche proprie del professionista con la conseguenza che vanno applicati i principi di diritto in ordine alla responsabilità professionale, derivandosi di conseguenza i limiti ed i carichi che riguardano l’onere della prova per le rispettive parti in causa, come già previsto in precedenti sentenze di Cassazione del 1975 e 1976.
Perché “contrattuale”
Si posson, pertanto, così schematizzare le premesse riportate nella sentenza antecedenti al principio di diritto successivamente affermato:
- L’obbligazione che il professionista assume verso il paziente, accettando l’incarico per lo svolgimento dell’attività professionale necessaria ed utile al caso concreto in vista del risultato, riguarda il dovere di svolgere un’attività professionale od utile con la necessaria diligenza;
- La diligenza è quella tipica del professionista medio, ma da valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata, come definito dal 2° comma dell’articolo 1176 c.c.; è quindi una diligenza qualificata;
- Laddove il professionista non ponga, nello svolgimento della sua attività, quella diligenza media come prima stabilito, la sua responsabilità è disciplinata dai comuni principi di natura contrattuale, per cui il professionista risponde di regola oltre che per il dolo anche per colpa lieve;
- L’attenuazione della responsabilità professionale vige solo laddove il caso concreto implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà così come previsto dall’articolo 2232 c.c., quando si trascendere la preparazione professionale media ed è richiesta un’attività tecnico professionale di livello superiore;
- L’attività professionale del medico si deve svolgere applicando le regole che sono state codificate dalle autorità scientifiche, consolidate dalla sperimentazione e che possono ritenersi acquisite dalla scienza e nella pratica, così da costituire un necessario corredo culturale e sperimentato della disciplina (ecco l’antesignano della definizione di linee guida e buone pratiche cliniche accreditate).
Colpa lieve, colpa grave e oneri probatori
La Corte di Cassazione così poi fissa il principio di diritto:
- Colpa lieve: quando il caso concreto è comune ed ordinario, allora sussiste una responsabilità ordinaria del medico, dove le regole da applicare non sono state osservate per inadeguatezza ed incompletezza della preparazione professionale comune o media (imperizia) o per omissione della diligenza media (negligenza);
- Colpa grave: quando il caso concreto è straordinario ed eccezionale, così da non essere adeguatamente studiato dalla scienza medica e sperimentato nella pratica ovvero quando nella scienza medica sono proposti dibattuti diversi ed incompatibili tra loro sistemi diagnostici, terapeutici di tecniche chirurgica, tra i quali il medico opera la sua scelta
Ne discendono, di conseguenza, i relativi principi in merito all’onere della prova:
- Incombe al paziente[cliente], che lamenta un danno, l’onere di provare la difettosa o inadeguata prestazione, l’esistenza del danno e di rapporto causale tra la difettosa od inadeguata prestazione professionale ed il danno;
- Incombe al professionista l’onere di provare l’impossibilità a lui non imputabile della perfetta esecuzione della prestazione;
In questa sentenza, la Corte specifica che:
- il paziente ha l’onere di fornire la prova di sufficienti ed idonei dati obiettivi riguardanti il caso concreto e il modo in cui è stata effettuata la prestazione del professionista per quanto riguarda la difettosità o l’inadeguatezza della prestazione professionale;
- Il giudice valuta, in base al caso concreto, se sono sufficienti una preparazione professionale media ed una diligenza media oppure se era richiesto un impegno tecnico professionale di livello superiore, dovendo il caso concreto richiedere la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà; si delinea così il profilo di responsabilità a carico del medico per colpa lieve o soltanto per colpa grave;
- Il professionista è tenuto a provare, in maniera subordinata l’esito positivo della prova a carico del cliente, che la imperfetta esecuzione della prestazione è dovuta a forza maggiore oppure a caso fortuito.
L’adattabilità dei principi al caso concreto
Tuttavia, scrive la Corte, questi principi di diritto non possono valere nella loro più ampia portata in modo assoluto, ma devono adattarsi ai diversi tipi di casi patologici ed ai conseguenti interventi chirurgici, definendo due momenti distinti di natura probatoria a carico del paziente:
- il primo, riguardante i dati obiettivi sul caso patologico concreto ed il tipo di intervento, che deve essere pieno ed assoluto;
- il secondo, riguardante il modo in cui sono stati eseguiti l’intervento operatorio e le successive prestazioni sanitarie, che deve essere relativo nel senso che l’oggetto della prova può e deve essere più o meno ampio a seconda della natura dell’intervento operatorio;
Ne discende quindi che in caso di:
- Prestazione sanitaria di difficile esecuzione, il paziente deve provare con precisione e in modo particolareggiato il modo di esecuzione dell’intervento operatorio nelle varie fasi, nonché il modo di esecuzione delle prestazioni post operatorie;
- Prestazione sanitaria non di difficile esecuzione, ma di natura comune ed ordinaria, con risultato peggiorativo, al paziente non è richiesto il rigore probatorio precedentemente delineato e non può non presumersi la inadeguata e non diligente esecuzione della prestazione professionale, presunzione questa basata sulla regola della comune esperienza nel settore chirurgico secondo il concetto id quod plerumque accidit. Fornendo così il paziente la dimostrazione di questi elementi, fondati sulla presunzione, ha adempiuto l’onere probatorio a suo carico. Spetta quindi al chirurgo la prova contraria: di aver bene eseguito, e diligentemente, la prestazione e che l’esito peggiorativo fu determinato da un evento imprevisto ed imprevedibile secondo l’ordinaria diligenza, oppure l’esistenza di una particolare condizione fisica del paziente [cliente] non accertabile con il medesimo criterio.
I principi di diritto nel rapporto che scaturisce tra il paziente ed il medico e/o la casa di cura in virtù dell’essenza della prestazione da erogare, delle sue peculiari modalità di erogazione e delle conseguenze che ne scaturiscono ricadevano già nell’alveo della responsabilità di natura contrattuale.
Qui sotto potete leggere e scaricare l’intera sentenza